Un quarto di secolo fa ho fotografato gli edifici abbandonati del Molino Stucky di Venezia con in mente la potenza visionaria di Giovanni Battista Piranesi.
Avevo scoperto l’ansia claustrofobica delle sue fantasie carcerarie da ragazzo, visitando una mostra alla Fondazione Cini. Ricordo la luce accecante che mi accolse all’uscita e la sagoma dello Stucky che tremolava in fondo al Canale della Giudecca. Fermo sulla riva di San Giorgio pensavo che lì dentro, al buio, di certo vegetava silenzioso un intero mondo sconosciuto. Spazi, macchinari, arredi. Tutto soffocato nel verde selvatico. Abbandonato e, con ogni probabilità, già ampiamente saccheggiato.
Lo sguardo di Piranesi fu una folgorazione. Rimasi stregato dalla sua capacità di condurmi dalla veduta d’insieme fin nelle viscere nere dell’architettura. Il suo tratto tagliente mi aveva suggestionato, spingendomi a fare fotografie maniacalmente nitide. Al punto che quell’ossessione per i dettagli mi sembrava finisse per complicare lo spazio sino a renderlo inestricabile. Grandiosa messa in scena crepuscolare, come fu per me l’interno dello Stucky in rovina. Architettura tramutata in catastrofe, ma ancora fatalmente seduttiva. Topos industriale fuoriuscito da cupe atmosfere cinematografiche. Dove la scenografia nasce dall’arte di rimestare iconografie, di immaginare spazi a venire riecheggianti ambientazioni d’altri tempi. Suscitando malinconie legate al disegno degli oggetti, ai soprabiti, alle luci che filtrano di taglio dalle tapparelle, ai ventilatori a soffitto. Come se attraverso i ricordi, in bilico tra il vero e il verosimile, fosse sempre possibile tornare ad aprire qualunque porta della Storia.
Fu moltissimi anni più tardi, una domenica di fine settembre, che mi trascinasti in un mercatino dell’antiquariato fuori Milano. Girando sotto la pioggerellina, avevo puntato un paio di sci antidiluviani e un’insegna-termometro delle pellicole Ferrania anni Cinquanta. Con la coda dell’occhio ti vedevo fumare di nascosto e ridere con le tue amiche quando, d’un tratto, scorsi su una bancarella una cornicetta scassata che conteneva uno dei piccoli grandi sogni della mia giovinezza: un’incisione delle Carceri!
Restai sorpreso di trovare un oggetto per me così prezioso messo lì con noncuranza. Il prezzo era accessibile per un desiderio tanto antico, tu riuscisti a strappare anche uno sconto e, finalmente, un Piranesi diventò mio. Un’edizione tirata dal figlio Francesco, non certo fra le migliori ma, comunque, una delle inquadrature più forti della serie.
Ora la stampa è appesa sopra al mio tavolo, protetta da un’elegante cornice in noce. Di tanto in tanto, alzo gli occhi dal computer e le getto un’occhiata. In un attimo torno a San Giorgio Maggiore, quarant’anni fa, e ripercorro di corsa i labirinti dello Stucky fino a giungere, ormai senza fiato, al mercatino. Ti rivedo che cammini verso l’auto con il nostro capolavoro male incartato sotto il braccio. Eri allegra e non vedevi l’ora di arrivare in quel ristorante di campagna che ti piace tanto. Fu uno dei nostri ultimi giorni insieme.
Ora ogni ricordo è impigliato nell’intrico furibondo di segni e ferite. Lì dove torno a cercarti, tra marchingegni misteriosi, scalinate e catene – nello spazio inaudito di un disegno. Salendo dal tanfo degli angoli bui al chiarore lunare delle volte possenti.