L’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa custodisce nel Gabinetto dei disegni e delle stampe del Museo Pagliara un singolare nucleo di opere incise da Giovan Battista Piranesi che, come ben sottolinea Barbara Jatta,“rappresenta un fenomeno pressoché sconosciuto per le stampe dell’artista veneziano” , poiché sfugge, in un certo senso, a quello che è il consueto modo di guardare l’opera grafica del maestro.
Si tratta di sei acqueforti appartenenti alla serie Vedute di Roma incise in I stato e tirate dall’artista nella stamperia a Palazzo Tomati vicino Trinità dei Monti, che interessano un periodo di tempo che va dagli anni di presunta realizzazione della Veduta del Ponte e Castello Sant’Angelo (fig. 1) (1748-51) agli ultimi anni di attività dell’incisore.
In queste opere il tratto dell’artista, che storicamente viene apprezzato per la fitta trama segnica votata al servizio di profondi effetti chiaroscurali, incontra un arricchimento del lessico grafico per mezzo di una dipintura a gouache che le rende uniche nel loro genere. I toni caldi e tenui del guazzo coprono interamente l’inciso e conferiscono un’illuminazione naturale alla composizione ammorbidendone il segno e donando, insieme alla cornice azzurra che ne contorna lo schiaccio, un valore aggiunto all’opera del maestro.
Un rarissimo prodotto artistico quello che si viene a delineare, che spinge ad indagare sul dialogo interiore tra i segni sulla lastra e le tracce del processo mentale che portarono alla scelta della resa tonale.
Le sei incisioni sono frutto di quel collezionismo privato di cui Napoli fu viva portavoce, specie tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, e che in larga parte confluì in collezioni pubbliche che oggi ne conservano la memoria e ne valorizzano l’importanza storico-artistica.
Il fervido canale di scambi culturali che si aprì in particolar modo nel periodo del Grand Tour permise, infatti, la circolazione nel Regno di Napoli di opere a stampa di varia provenienza, consentendo a collezionisti locali di acquisire esemplari – talvolta rari ed assai particolari come quelli qui oggetto di studio – che finiscono con l’acquisire e col presentare caratteristiche tanto piranesiane quanto partenopee.
È il caso delle opere acquistate dall’eclettico quanto stravagante amatore d’arte Rocco Pagliara , poliedrico esponente di quell’ambiente culturale napoletano intriso di nuovi sentimenti liberali, che fu un ossessivo collezionista avvezzo all’acquisto di oggetti d’arte presso gli antiquari che si assiepavano lungo via Costantinopoli, zona che egli quotidianamente frequentava poiché prospiciente al Conservatorio di San Pietro a Majella di cui fu bibliotecario e direttore amministrativo. È qui che, con ogni probabilità, acquistò le opere di Piranesi che, insieme ad una raccolta che conta complessivamente oltre 23.000 incisioni e ad altri manufatti artistici quali dipinti, sculture, libretti musicali e molto altro, confluirono al Suor Orsola nel 1947 per volere della sorella del collezionista, Maria Antonietta Pagliara, allora direttrice del Magistero sotto la guida della principessa di Strongoli Adelaide del Balzo Pignatelli. La direttrice, infatti, alla morte del collezionista, sulla scia del suo spirito e della sua cultura progressista nel campo dell’educazione femminile, volle donare all’Istituto parte della collezione appartenuta al fratello, affinché le studentesse potessero beneficiarne nello studio della storia dell’arte.
È così che le sei acqueforti giunsero negli ambienti della Fondazione Pagliara, dove, grazie ad un certosino lavoro di restauro effettuato dall’Istituto Centrale per la Grafica – con cui il Suor Orsola intrattiene fecondi legami collaborativi –, trovano oggi nuova luce.
Concepite dopo il soggiorno veneziano che l’artista fece tra il 1743 e il 1744, queste incisioni mostrano quanto le radici di Piranesi affondassero nel vedutismo veneto, nella tradizione pittorica di Tiepolo e di Canaletto, e quanto però presto si fondessero con l’esperienza romana compiuta già nel 1740, riuscendo a creare un modo di leggere Roma che ne costituì non solo il veicolo ufficiale di conoscenza internazionale fino all’avvento della fotografia, ma anche il filtro attraverso il quale ancora oggi guardiamo l’Antico.
Il tempo, protagonista indiscusso dell’opera del maestro – in quanto non solo unisce l’antico al moderno, ma è viva espressione di una società intrisa di nostalgica decadenza mista a concezioni del tutto nuove – viene dilatato in questi esemplari dall’intervento di altre mani che hanno prolungato i tempi di realizzazione dell’opera ben oltre l’attività di Piranesi, coprendo successivamente i bianchi e i neri con un manto colorato che arricchisce, e al contempo deforma, la struttura originaria dell’opera.
La dipintura ad acquerello e gouache pur inibendo di molto la lettura della tecnica di Piranesi dall’acquaforte “bionda” delle prime prove ai forti contrasti chiaroscurali della seconda maniera, non altera la possibilità di uno studio relativo all’evoluzione delle scelte prospettico-iconografiche che egli compì in ambito vedutistico. Ad un confronto tra le tavole realizzate negli anni Cinquanta (figg. 2 - 3) e le vedute più tarde (figg. 4 - 5), rimane evidente, infatti, come il taglio ortodosso e di ampio respiro delle prime vedute maturasse in una scelta dei temi in cui la descrizione delle rovine si fa più frequente, e dove l’impostazione altamente drammatica delle vedute predilige un taglio non convenzionale della ripresa.
Gli stessi temi dell’Antico e dell’architettura, su cui si fonda il vedutismo piranesiano, non solo restano inalterati, ma trovano un valore aggiunto e assai particolare nella presenza della colorazione a guazzo.
Un esempio è la Veduta del Tempio di Ercole nella Città di Cora (fig. 6) in cui il dialogo tra l’antico e il moderno e la lezione canalettiana sulla natura, che nel suo continuo progredire tende a riappropriarsi delle rovine, sono accompagnati da una leggera coloritura che smorza il tratteggio e addolcisce i segni di quell’eterno conflitto tra il tempo delle cose degli uomini e il tempo della natura, sotteso alla poetica piranesiana. La medesima scelta lieve dei toni si ritrova in una gouache che il vedutista romano Paolo Anesi realizzò negli stessi anni sul modello della stampa del maestro, a cui, forse, si ispirò l’artista che dipinse a guazzo le opere napoletane (fig. 7) .
Anche nelle prove degli ultimi anni, come le vedute della Basilica Vaticana e di San Giovanni in Laterano, del 1775, in cui l’acquaforte si fa più pesante e stratificata al fine di sottolineare la vastità e la schiacciante distesa dei monumenti, gli espedienti utilizzati da Piranesi trovano perfetta corrispondenza nell’uso della tenue colorazione a gouache di manifattura napoletana.
Le proporzioni volutamente sbagliate tra le architetture e i personaggi raffigurati, in cui questi ultimi assumono talvolta dimensioni ciclopiche – come nella veduta di San Giovanni in Laterano rigettata all’indietro in una visione prospettica a cannocchiale applicata all’inverso – e talaltra “da pagliuzza”, tanto da depositare nello spettatore “una angoscia analoga a quella di un lombrico che tentasse di misurare i muri di una cattedrale” , rappresentano un geniale artificio ideato da Piranesi per meravigliare lo sguardo di quei turisti che si accalcavano per l’acquisto delle sue vedute. Un escamotage, questo, che trova eco nell’analoga comunione di intenti di quelle botteghe napoletane che, al fine di assecondare il gusto dei viaggiatori del Grand Tour, si adoperarono nel colorare le opere a stampa più richieste.
È chiaro, infatti, che la maniera napoletana di “gouachare” le stampe rispondeva ad una crescente richiesta da parte di questi viaggiatori di arricchire le incisioni con colori appunto a gouache, ad acquerello o a tempera, al fine di renderle simili ai dipinti e quanto più fedeli possibile ai luoghi che essi avevano visitato, al pari delle nuove tecniche d’incisione di resa tonale che in quegli stessi anni venivano ideate in Francia .
Tale particolarità, ad oggi, trova riscontro solo in un gruppo di opere coeve, copia da originali piranesiani, conservate presso la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid e provenienti dal mercantile inglese Westmorland, salpato da Livorno e diretto in Inghilterra, che due navi militari francesi depredarono agli inglesi nelle acque del Mediterraneo il 7 gennaio 1779.
Questa data offre un riferimento cronologico orientativo anche per le opere della collezione Pagliara qui prese in esame, confortando una datazione dell’intervento napoletano sulle acqueforti di Piranesi tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del secolo successivo. Un ulteriore tassello, quindi, che lega questo tipo di lavorazione al mercato dell’arte e al fenomeno del Grand Tour, di cui, per altro, lo stesso Piranesi fu protagonista nei numerosi viaggi che da Venezia lo condussero a Roma e nel Regno di Napoli.
È infatti opportuno sottolineare l’importanza che ebbero, nella formazione artistica e nei profondi studi di archeologia e architettura che il maestro portò avanti lungo il corso della sua attività, i rapporti che egli intraprese con il Regno di Napoli e con le personalità che ivi ebbe modo di incontrare .
Già nel 1740, secondo il suo biografo J. G. Legrand, il giovane Piranesi giunse a Napoli insieme al suo amico Antonio Corradini alla ricerca di quella forza di colore e di effetti prospettici che nei suoi viaggi aveva riscontrato in pittori come Rembrandt, Caravaggio, Tintoretto e Tiziano e che, come riporta lo stesso Legrand, il panorama artistico romano a quei tempi non possedeva .
Qui ebbe modo di conoscere la maniera veloce e viva di Luca Giordano e di avvicinarsi alle recentissime scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano, che certamente dovettero confermare in lui l’enorme interesse per l’Antico già coltivato durante il suo primissimo soggiorno romano, per poi consolidarsi durante il secondo viaggio a Napoli, compiuto nel 1770, grazie allo stretto rapporto con Camillo Paderni, direttore del Museo Ercolanese di Portici dal 1758. È grazie all’amicizia con questi, infatti, se Piranesi poté schizzare dal vivo i tanto agognati disegni degli scavi di Pompei e delle piante del Museo Ercolanese di Portici, poi delineate ed incise dal figlio Francesco nel 1806.
Il profondo rapporto che l’artista instaurò con l’ambiente partenopeo non si esaurì però nelle sole opere in cui si dedicò alla riproduzione – talvolta fantastica – di luoghi ed oggetti locali, né si concluse con la morte dell’artista se, come ricorda Roberto Pane, nell’ottobre del 1799, dopo la caduta della Repubblica romana, i suoi rami vennero trasportati a Napoli, dove rimasero sotto sequestro per ben due anni prima di essere riconsegnati ai francesi .
Esso, infatti, permane nelle collezioni pubbliche e private che di quel rapporto sono viva testimonianza e che talvolta aggiungono, come in questo caso, piccoli quanto preziosi tasselli alla conoscenza dell’arte del grande maestro veneziano.