Nel 2010-2011 Mario Cresci è stato protagonista di un progetto espositivo, a lui dedicato dalla Pinacoteca di Bologna, l’Istituto centrale per la grafica e il Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Matera, nel quale l’emblematico titolo Forse fotografia rimandava al carattere mobile, aperto e trasversale del lavoro di questo artista: un lavoro che, seppure pervaso da una costante tensione grafica, è sempre al limite tra vari generi artistici, indisponibile a definizioni di categorie disciplinari, in un processo che mette sempre in discussione i confini tra le varie tecniche, che indaga i linguaggi visivi e le forme della percezione per evidenziarne le contraddizioni e i condizionamenti culturali, e liberarli dagli stereotipi, in una continua ridefinizione della prassi artistica, vissuta sempre e prioritariamente come processo di conoscenza .
Da sempre Mario Cresci ha intessuto con i luoghi dell’arte – quei depositi di saperi e testimonianze che sono i musei, gli archivi, le accademie - un rapporto particolare, frequentandoli e vivendoli però, non soltanto come semplici contenitori, bensì come luoghi di relazioni, di confronto, di contaminazioni, di comunicazione, nei quali ritrovare quella “dimensione vitale e creativa” in cui nutrirsi dei valori sociali, culturali ed estetici che hanno segnato e segnano la storia dell’uomo e nei quali, contemporaneamente, poter sperimentare, sovvertire e rigenerare i linguaggi e i mezzi dell’espressione, come anche i processi e i meccanismi della visione e della percezione.
A Roma, come a Bologna e a Matera, e come in molte altre occasioni, anche più recenti, Cresci ha condotto così nuove ricerche, sempre nell’ottica di un’analisi e di un interscambio tra le varie forme espressive, interrogando le opere di artisti del passato per una forte esigenza di conoscenza, mosso da una ineludibile curiosità e dalla necessità di comprendere “i percorsi ideativi che precedono l’opera”, e superare così anche il rischio di autoreferenzialità, spesso implicito nella affermazione della propria autorialità .
E a Roma, Mario Cresci – dando piena voce a un suo antico e coerente, seppur latente, dialogo con l’incisione – non poteva sfuggire al fascino che da sempre esercitano sugli artisti le lastre di Giambattista Piranesi, nume tutelare dell’Istituto, e punto di partenza per una riflessione e una restituzione, attraverso nuove opere (realizzazioni site-specific), del contesto, della storia, del senso e della missione culturale della Calcografia, e del significato delle opere ivi conservate, anche con la volontà di renderle pregnanti nella nostra contemporaneità, di riattualizzarle e aprirle a nuove letture e a nuove interpretazioni. Ne è scaturita un’indagine che ha posto l’accento proprio sulla considerazione della continuità teorico-concettuale, delle analogie e delle connessioni che legano i due media (incisione e fotografia), per la loro comune natura di calco/impronta; per il loro stato di doppio, o anche per la comune, problematica definizione e individuazione dell’opera ‘originale’, in relazione al binomio matrice/negativo-stampa/positivo, e alla conseguente polarità di ‘unico’ e di ‘multiplo’, con la medesima, implicita e inderogabile vocazione alla riproducibilità.
I lavori creati all’epoca per la mostra – poi donati all’Istituto e in parte esposti anche nella sezione “Visioni contemporanee” all’interno della mostra dedicata al genio di Piranesi, Sognare il sogno impossibile (2020-2021) – costituiscono così una sintesi e una visualizzazione concettuale della riflessione di Cresci sull’elemento specifico che caratterizza tanto l’incisione quanto la fotografia e che è, del resto, tema centrale e costante di tutta la sua ricerca artistica: il loro essere segno, traccia, e insieme il loro statuto di copia, di immagine di immagine, con tutto l’insieme delle problematiche, delle relazioni e delle filiazioni genealogiche che concernono entrambi i linguaggi . Particolarmente significativa e centrale, in questo percorso, si presenta l’opera Tracce di vita, 2011, un’installazione (una sorta di proiezione dall’alto dell’immagine di Fontana di Trevi) in cui si ha un chiaro esempio del senso profondo delle ricerche condotte da Cresci sulla storia e sul significato dei segni tracciati dall’uomo nel mondo, sulla loro complessa e spessa stratificazione. Una serie di 16 fotografie (stampe fotografiche digitali BN, cm 30x30) che ripropongono il perimetro della Fontana attraverso i graffiti prelevati, con la tecnica del frottage, dai paracarri che circondano la vasca:
«Segni di un’azione performativa […] tracce lasciate sul marmo dalle persone che durante i secoli le hanno materialmente incise. I frottages, riprodotti in scala al vero, simulano a parete il semiarco della piazza, visibile dall’alto di Palazzo Poli. Al centro, da un disegno della Fontana di Trevi, di Piranesi, la riproduzione di una persona appoggiata a uno dei paracarri. Un ‘Tatoo’ ideale sulla pelle del tempo e il titolo dell’installazione è in senso ironico “Tracce di vita”» .
Una serie di segni, quindi, sempre pronti e disponibili a rimettersi in circolo, ritrovati e rilevati dall’artista, trasformati dalla sua azione e successivamente dalla riproduzione fotografica e offerti in un diverso contesto, in una nuova realtà, aperti a nuovi significati e a nuove letture, segni migranti, come Cresci stesso li definisce . Per lui, infatti, «la fotografia è misurarsi con l’uomo, la storia, la scienza, l’industria e l’arte; è far scorrere in parallelo il tempo della vita con ciò che sta intorno. Continuum, dunque; pervaso di significato migrante e, in questo, vivente» .
La piccola figura piranesiana, prelevata a sua volta da un’incisione del grande artista e collocata simbolicamente al centro dell’installazione, assume così le sembianze di un genius loci, a sottolineare contestualmente sia lo stretto rapporto della Calcografia con il contesto storico e urbano in cui ha svolto la sua funzione nel tempo, sia la fascinazione del “sito”, di cui Cresci rappresenta e interpreta l’unicità. Come tanti altri responsabili dei segni tracciati sulla “pelle del mondo”, l’omino appoggiato sul paracarro, si identifica, in un certo senso, con lo stesso Piranesi, testimonial – insieme ad altri grandi maestri, come Agostino Carracci, Luigi Calamatta, Giorgio Morandi – dell’identità e della specificità dell’istituzione storica che è sempre stata – ed è ancora oggi, come l’esperienza di Cresci ancora una volta dimostra – luogo di sperimentazione e di riferimento per gli artisti, laboratorio vitale e creativo, oltre che scrigno di tesori che custodisce per lo studio e la ricerca.
Alle opere di Piranesi (e di Morandi), Cresci aveva dedicato anche un’altra serie di immagini, nelle quali aveva focalizzato l’attenzione sul tema del ‘disegnare con la luce’ – vocazione implicita del mezzo fotografico che, in Calcografia, l’autore declina attraverso una videoproiezione, Segni nei segni dei segni – Drawings for projection (Roma 2011), nella quale vengono proiettati segni intrecciati, sovrapposti e ravvicinati, ripresi da incisioni dei due artisti. Nel video, che è stato riproposto recentemente in una nuova edizione , interamente dedicata ad alcune tavole della serie delle Carceri di Piranesi, l’artista isola alcuni solchi incisi sulle lastre di rame e li trasforma in segni luminosi in movimento, che si moltiplicano, si assemblano e si sovrappongono, via via ricomponendo le geometrie e il tracciato del disegno originario, e affidando al gioco teso e dinamico delle linee l’analisi del processo percettivo.
In questa serrata e quasi ipnotica sequenza di immagini astratte, in cui il nostro sguardo è catturato e imbrigliato nel groviglio claustrofobico dei segni piranesiani, Cresci sembra evocare e restituire la stessa impressione che delle Carceri ci ha lasciato Marguerite Yourcenar:
«La preferenza del barocco per le prospettive diagonali finisce qui per dare la sensazione di esistere in un universo asimmetrico. Ma questo mondo privo di centro è nello stesso tempo perpetuamente espansibile. Dietro queste sale piene di inferriate, sospettiamo l’esistenza di altre simili in tutto, dedotte o deducibili indefinitamente in tutte le direzioni immaginabili. […] Questo mondo rinchiuso su se stesso è matematicamente infinito.»
Anche in questo caso, alla base dell’opera è un’operazione di prelievo/citazione, da cui l’artista ha tratto poi anche una versione in fotoincisione, estrapolando una serie di sei frame e traducendoli in altrettante stampe calcografiche, Fotogravures (Piranesi), 2011 (serie unitaria di sei stampe, cm 50x70), che sintetizzano i momenti salienti della video installazione, in un affondo nell’analisi e nella ibridazione delle tecniche che rileva anche uno degli aspetti più singolari e caratteristici della continuità tra le pratiche museali e quelle di laboratorio-officina che si attuano in Calcografia. Ed è ancora una suggestione della Yourcenar che può fare da commento alla conclusione della sequenza:
«Quando Piranesi non ha potuto fare a meno di introdurre in questi complessi un travetto consunto o un nobile frammento di rovina antica, l’ha incastonato, come un pezzo prezioso di riporto, al centro di murature senza età.»
Quale esito della ricerca site-specific condotta da Cresci in Calcografia una decina di anni fa, restano ancora, presso le collezioni dell’Istituto, le fotografie di un’altra serie – Rivelati (serie unitaria di 9 stampe fotografiche digitali BN, cm 50x35) – nella quale l’artista, confrontandosi sempre con la raccolta storica delle matrici, dedica il proprio studio analitico dei segni a una lastra delle Carceri, e ad altre incisioni di Calamatta e Carracci . Una ricerca che, come per la video installazione, è stata ripresa e integrata nel corso del 2020 per l’allestimento della mostra di Modena, nella quale la nuova serie dei Rivelati è stata esposta in forma di polittico, con immagini costituite, in questo caso, da macro prelievi estratti da fotografie fatte realizzare appositamente e ad altissima risoluzione, con una tecnologia avanzata e molto sofisticata, dall’amico fotografo Alfredo Corrao.
Se nella prima versione della serie, ciò che veniva rilevato era soprattutto il gioco della luce che, a seconda dell’inclinazione della matrice di rame, modifica la percezione dell’immagine, riflettendone – come in un dagherrotipo – effetti ‘ingannevoli’ di passaggio dal negativo al positivo, nella seconda l’estrema definizione della ripresa sembra penetrare all’interno dei segni, restituendone tutta la fisicità e la tridimensionalità, rivelandone la specifica struttura materica oltre che i differenti valori formali. Una rielaborazione e un aggiornamento delle proprie opere che, come era stato per i diversi stati delle incisioni di Piranesi, rimettono in gioco il circolo creativo dell’artista, e dall’immagine originaria generano altre immagini. Cresci opera così una sorta di ‘rivisitazione’ delle proprie fotografie che, a distanza di tempo, possono essere viste sotto altri aspetti, suggerire nuovi stimoli e assumere significati sempre diversi.
In questi ultimi lavori realizzati sulle matrici della Calcografia, Cresci si riallaccia alle sue più antiche ricerche legate al tema della copia anche per un altro aspetto. Mi riferisco, in particolare, alla serie di disegni Copia di copia (1985-1986), poi riproposti nel 2006 in una serie di fotografie, D’après di d’après . Si trattava di una serie di disegni a grafite tracciati su riproduzioni di celebri icone tratte dalla storia della fotografia. Anche in queste abbiamo un esempio delle ricerche condotte da Cresci sulla storia e sul significato dei segni, sulla loro diversa qualità espressiva, sulla loro forma e natura, sulle diverse modalità in cui si strutturano per dar vita a un discorso, a un linguaggio, per poter comunicare, appunto (sono sempre la comunicazione, e le relazioni che si stabiliscono attraverso le forme della comunicazione, che interessano Cresci). Il segno tracciato sulle copie di fotografie era quindi il tentativo di penetrarne e decifrarne i segni, la sintassi, i codici espressivi. È lo stesso genere di ricerca che ha intrapreso il fotografo nei suoi più recenti lavori su Piranesi, Calamatta e Carracci (2020), approfondendo l’indagine critica e la conoscenza delle loro incisioni servendosi delle macro-fotografie, grazie alle nuove tecnologie oggi a sua disposizione. Come gli incisori – attraverso il segno ottenuto dai bagni dell’acquaforte o dal bulino o da altri strumenti – indagavano e restituivano la loro percezione del mondo e il loro sentimento dei luoghi (come Piranesi, come Morandi), o traducevano le composizioni dei grandi maestri e analizzavano la struttura e le relazioni cromatiche e tonali del tessuto pittorico di un dipinto (nel caso di Carracci o di Calamatta), costruendo e definendo un vero codice tecnico-linguistico per trasferire sulla lastra, e poi far figurare sulla stampa, il modello preso a proprio soggetto, così Mario Cresci cerca, analizza, interpreta e verifica (attraverso il disegno o la macrofotografia) i codici linguistici con i quali, di volta in volta, i fotografi/gli incisori hanno messo in immagine i loro soggetti, sintetizzandone le peculiarità sintattiche e le specificità innovative.
Come nelle sue varie opere, anche nelle indagini sulle incisioni di Piranesi, Cresci riflette sui segni della storia, ai quali si sovrappongono i segni della realtà presente, dietro i quali si celano sempre degli archetipi, quelle forme primarie che sono alla base della realtà fenomenica e della comprensione del mondo. La sua è una ricerca continua sulla storia dello sguardo, dei modi di vedere e di restituire la realtà, sulla storia stessa della fotografia, come dell’incisione, ovvero, sulla storia delle immagini tout court, che sono però sempre immagini di immagini, copie di copie («Il concetto di copia era per la cultura di Roma un grande motivo di conoscenza» ), in un processo ripetitivo, infinito, ma sempre aperto, originale ed inedito.