L’interesse e il rilievo dell'opera di Giovanni Battista Piranesi è indubbiamente accertato dalle numerose pubblicazioni recenti: degli ultimi cento anni, a partire dal bicentenario della sua nascita.
Tra i tanti studi, partendo dagli ultimi, si possono qui brevemente ricordare:
In effetti l'evoluzione di questo graduale, laborioso, analitico e progressivo riconoscimento, considerata nel terzo centenario della nascita, può essere colta solo guardando più lontano. A distanza di oltre un secolo si può oggi partire da un riferimento tutt'altro che sistematico, ma efficacemente sintetico e chiaro: dal riepilogo antologico dell'opera di Giambattista Piranesi architetto ed incisore, tentato e pubblicato nel 1915 da Federico Hermanin, allora direttore della Regia Galleria d'arte antica e Gabinetto delle Stampe in Roma, con le edizioni d'arte E. Celanza a Torino , nella serie divulgativa “Artisti d'Italia” (collezione di monografie illustrate dei grandi maestri pittori, scultori, architetti, incisori antichi e moderni). Si può così tornare agilmente e altrettanto in breve alla estrema sintesi di quelle pagine, per cercare di intravedere immediatamente attraverso un colpo d'occhio d'insieme cosa sia mutato negli studi su Piranesi, nel modo di percepirne e di intenderne l'opera nel corso di questo terzo secolo trascorso dalla sua nascita. Quel che già allora era chiaro è il tentativo piranesiano di studio e riproduzione dello spazio e del tempo assieme e solidalmente intesi. Quel che forse cento anni fa (ventuno lustri per la precisione) ancora mancava erano alcune suggestioni, a partire da quella evocata dal cognome che pare autorizzare l'ipotesi di una provenienza familiare da Pirano d'Istria. Ma si tratta di una sola esemplificazione tra le molte novità che possono essere estese sino al ridimensionamento del riguardante, in un sogno continuamente nutrito di visioni del vero che conducono alla riduzione dell'osservatore e non tanto alla dilatazione dello spazio, come si è piuttosto e in prevalenza creduto e scritto. Un rovesciamento equanime e veritiero nel ristabilire pesi e ruoli nella ricerca e costruzione del reale ha prodotto un ribaltamento inizialmente male inteso, che anticipa invece di molto percezioni recenti tendenti a stabilire il momento del riconoscimento dell'opera, come doveroso e continuo impegno finalizzato al suo restauro; impegno da non enfatizzare, ma imperativo, restandone destinatari e protagonisti i molti coautori e conservatori dell'opera, predecessori nella staffetta della sua memoria nel corso del tempo, assieme agli ignoti custodi futuri. Insomma in un abbraccio che raccoglie tutti i tempi dell'opera. Ma il desiderio divulgativo di brevità, applicato per giunta a una sintesi, può generare confusione e conviene quindi seguire ordinatamente i contenuti esposti in quelle appena quattordici pagine introduttive (dalla settima alla ventesima) di presentazione di una attività concretizzata in oltre duemila incisioni su rame (sul totale delle lastre portate dai figli a Parigi, 1505 furono acquisite dalla Calcografia Camerale- il numero comprende le matrici delle didascalie e delle vignette- per un ammontare di circa 1200 soggetti, 964 autografi di Giambattista) ad iniziativa di Gregorio XVI, oggi presso l'Istituto Centrale per la Grafica, talora soggette a ripetuti interventi dell'autore, e dunque nelle variazioni a stampa ancora più numerose, selezionate nella stessa occasione dall'Hermanin in sole 50 tavole.
Procediamo quindi ordinatamente pagina per pagina, per singole citazioni e relative riflessioni.
Scrive in apertura Hermanin del Piranesi che “a Santa Maria del Priorato sull'Aventino l'opera [...] fu più di squisito e nuovissimo decoratore che di costruttore” (p. 7). E aggiunge che “dovunque nelle opere sue egli scrisse il suo nome sempre accompagnandolo con titolo di architetto, tanto era il desiderio di apparire con esso distinguendosi dai pittori e dagli incisori” (p. 7-8). Così prosegue: “a soli ventitre anni, nel 1743, egli comparendo per la prima volta in pubblico, dichiara di ricorrere all'incisione per dare vita in qualche modo ai suoi progetti architettonici, per i quali nella Roma di Benedetto XIV mancavano […] mecenati”. Si tratta dunque di una scelta per la stampa quasi obbligata: il mezzo allora di maggiore efficacia, diffusione, agilità di riproduzione e moltiplicazione di una idea istantanea che potesse configurare unità di spazio e di tempo. Come a supplire al cantiere, che in francese è teatro. “Ora è appunto della scenografia che non deve dimenticarsi chi s'occupi di tracciare un rapido quadro dell'educazione artistica di Giambattista Piranesi” (p. 9). Considerazione questa a cui pare particolarmente improntata la mostra multimediale realizzata dal 15 ottobre del 2020 dall'Istituto Centrale per la Grafica, declinando la scena in tutte le sue molteplici modalità di espressione attuali.
Un cenno ai due periodi trascorsi a Roma e alle sue meraviglie descritte dal “fratello suo certosino” (p. 9) può meglio subito spiegare un perché della destinazione nella “Certosa” per la sua progettata sepoltura organizzata nella forma di urna sormontata da un grande candelabro antico frammentario e ricomposto. Quel lume è stato presto asportato da Napoleone per essere trasferito a Parigi, dove si conserva al Louvre, non più in mostra, ma in magazzino.
Più di un ripetuto riferimento al “Bianconi, il malevolo biografo” (p. 10) non impedisce all'Hermanin di riconoscerne comunque i meriti quando “Egli ci racconta che Giambattista molto si esercitava nel disegno, raccorciando per esso il riposo della notte, ma non ritraeva le belle statue antiche romane e greche dei musei, bensì i più sgangherati storpj e gobbi, che vedeva il giorno per Roma: […] strani esseri, che coll'aspetto miserabile e pauroso pare che stiano a raffigurare l'anima dolorosa di quegli avanzi di antiche magnificenze” (p. 10). Si tratta insomma di una visione nascente da una tradizione di scambi e continue interazioni, certamente veneta, perfino quasi memore di quella mediterranea in età ellenistica, contraria alla retorica e all'epica eroica, alla ricerca dello straordinario e al trionfo dello stupefacente, rivolta invece a un tentativo esteso e continuo di aderenza al vero nella potenza (percepita come spessore, altezza, profondità) del tempo. Tentativo di ascolto, di interpretazione, ricomposizione e cura per tutti e per ciò che è comune, in una logica sociale di attenzione il più possibile diffusa, antiélitaria. Capace perfino di vedere con largo anticipo quasi la cova della rabbia rivoluzionaria.
“La sua bottega era sul corso di fronte all'Accademia di Francia, che allora aveva la sua dimora nel palazzo Salviati […] Quatremère de Quincy poteva scrivere che la comunanza di gusti e conoscenza che tutte le nazioni colte d'Europa dimostravano, aveva la sua origine nell'essere tutta l'Europa divenuta romana” (p. 11). Questa vicinanza e al tempo stesso questa posizione frontistante di luogo spiega benissimo l'influenza su Piranesi, malgrado la sua provenienza adriatica, della centralità francese nella costruzione europea prima ancora della Rivoluzione. E illumina al tempo stesso un rapporto che è stato di convergenza e confluenza avversativa, dialettica o addirittura polemica quando è esploso su singoli casi, come dimostra ad esempio quello relativo agli studi sulla villa di Orazio a Licenza.
Dal palazzo Salviati alla Lungara, non da quello al Corso, sede dell'Accademia di Francia, proviene in frammenti, ricomposti, il suo monumento fúnebre: dalla stessa descrizione dell'opera, dedicata a Carlo Morris, parte insomma la ricerca di riunione che esprime e chiarisce al tempo stesso una componente di adesione e dialogo tra diversi paesi, protorisorgimentale, europea prima che nazionale, pre mazziniana, poco studiata, del Piranesi. Non è improbabile che nel breve soggiorno a Napoli con Antonio Corradini e nel corso dei mesi seguenti, Piranesi abbia percepito l'eco del pensiero di Giovan Battista Vico, scomparso l'anno successivo. Vico aveva osservato che si può conoscere compiutamente soltanto ciò che si crea, avviando l'interpretazione dei fenomeni storici. Con crescenti nuove attenzioni per l'archeologia e il restauro si manifestava la graduale trasformazione dei metodi di produzione dei beni. Vico avverte che quelli del passato non sono replicabili. Sia pure stemperata dalla teoria dei corsi e ricorsi della storia, si afferma così la consapevolezza che le opere antiche sono irriproducibili e i cicli storici irripetibili. In questa cornice può essersi consolidata, a ventiquattro anni di età, prima del rientro a Venezia, la scelta per l'incisione e la riproduzione a stampa delle immagini.
Rispetto alla “via del guadagno” si tratta quindi, forse e prima ancora, specie in questo caso, della via parsimoniosa di non disperdere, ma di raccogliere, fermare e tramettere i pensieri: la via della memoria che guarda al futuro. Numerosi sono gli architetti, prima e dopo di lui, che nell'impossibilità di costruire si sono dedicati a disegnare e a scrivere. Fermando idealmente le pietre. Parimenti rispetto al “trasformare con la fantasia” si tratta piuttosto di essersi dato a “osservare i monumenti da punti di vista nuovi, a spogliarli delle sovrapposizioni, a deformarli quasi, ad ingrandirli, ad allungarli secondo le sue visioni interiori che lo traevano a non volere dare di Roma e dei suoi monumenti visioni realistiche, ma qualcosa che ne rilevasse la grande anima”. Rispetto a visioni addirittura irreali, si tratta quindi, piuttosto, di “comporre visioni senza limite di spazio e di tempo […] tavole con vedute di Roma antica e moderna […] opera veramente gigantesca” (p. 12). Non si tratta dunque di una realtà alterata, quanto piuttosto trasfigurata dal desiderio coltivato di evitare il rischio di offrire una guida pedante: “il cicerone deve sempre più ritirarsi dinanzi all'archeologo ed al poeta” (p. 13). La scelta di una vera e propria reinterpretazione illustrata precorre i tempi di oltre un secolo - oggi possiamo e dobbiamo riconoscerlo - e si traduce (nel fraintendimento del Bianconi) in una presunta, sia pur bella, “infedeltà” piranesiana. Spiega invece Hermanin che “gli edifici nelle acqueforti si riconoscono quasi più che per la linea esterna materiale, per l'espressione loro che forma la principale caratteristica” (p. 14). Insomma sulla fisionomia e sull'estetica prevale l'introspezione, la sostanza, il giudizio critico, sintetico. La diaspora nascente tra forma e contenuto è anticipata e già vinta nella terna classica tramite la quale alla durevolezza stabile, alla solidità anche intrinseca del contenuto e alla bellezza della forma si aggiunge - o meglio si antepone - l'utilità, cioè l'uso, la funzione, la destinazione, la tecnica. Il necessario. È sorprendente e straordinario questo precorrere l'idea di un paesaggio sociale anche contraddittorio e conflittuale, costituito non tanto e non solo da panorami, quanto da usi, da modi di vivere, da persone. “Figurine vivaci di eleganti cavalieri e di dame incipriate […] animano insieme ad agili popolani le solitudini […] di campo Vaccino e del Palatino ed una donnetta stende i panni tra gli archi del castello dell'acqua Giulia” (p. 14).
“I monumenti […] esaminati sino nelle loro fondazioni, le profonde latomie dei colli su cui si adagia Roma, ogni cosa trova in lui un illustratore preciso da un lato ed un esaltatore fantastico dall'altro” (p. 15). Esaltazione che non comporta però arbitrio o approssimazione, libera interpretazione. Come invece perfino l'Hermanin a tratti contempla e ritiene possibile, quando accenna a “proporzioni che nulla hanno di comune colla realtà”. O quando prosegue, scrivendo di lui, “che dimentica ogni misura e pare che non si ricordi di quell'altro Piranesi, che vanta ad ogni istante i suoi titoli di architetto e di archeologo” (p. 16). Al contrario nessuna alterazione è invece ammessa e concessa a sé stesso dal Piranesi. Nasce da qui, dal rigore autoimposto, la sua acribia minuziosa che non di rado lo spinge alla accesa polemica rispetto ad ogni approssimazione, senza soggezioni di sorta. Coraggio che gli viene riconosciuto: “Egli combatte, con dottrina d'archeologo […], da un lato le stolide accuse pubblicate a Londra nel 1755 da un anonimo che si cela sotto il nome di Investigator, contro i primitivi Romani, e dall'altro cerca di apporre argomenti tratti dalle sue nuovissime indagini alle affermazioni del francese Leroy, che ogni cosa d'arte romana voleva abbassata ed avvilita al paragone di ciò che hanno prodotto i Greci” (p. 16). Non che Piranesi volesse con questo stabilire un primato, né limitare lo sguardo a Roma o all'Italia: frequenti attenzioni riserva infatti alla Grecia e alla Magna Grecia, ma sottolinea le composizioni e le confluenze tra culture diverse, fuggendo comunque l'idea schematica e nazionalista di una matrice unica e superlativa, migliore delle altre. Guarda quindi anche oltre, agli Etruschi, all'Egitto, perfino all'Oriente, sempre spaziando in luoghi e tempi diversi riuniti assieme, che è poi l'essenza di quanto esiste. Vengono riepilogati dall'Hermanin non solo i grafici ma anche i testi, riconoscendo al Piranesi uno “spirito veramente moderno là dove scrive che la vera grandezza dell'arte romana si è dimostrata nelle opere pubbliche di poca apparenza ma di grande valore per la vita civile: negli acquedotti, nelle terme, nelle cloache, e pensa che queste provvidenze sociali […] siano le vere glorie […] Egli è poi forse il primo ad intravedere il legame che l'arte greca ha coll'arte egiziana, e tenta genialmente di liberare quella romana dalla discendenza greca col farla derivare piuttosto dall'arte degli Etruschi” (p. 17). Hermanin tratteggia poi “in questa rapidissima rassegna dell'opera piranesiana” il passaggio dalle prigioni intese come apparato scenico alle carceri: “trasformò il vecchio motivo scenografico del carcere in una cosa nuova, vibrante di pensiero […] trasse qualcosa della forma schematica delle antiche prigioni da fondale, ma ogni cosa rinnovò […] visioni in cui s'adombrino le inquietudini e le incertezze dell'anima che non può acconciarsi a dovere vivere tra i ferrei vincoli della tradizione e della vita formale. Il carcere colle sue mura gigantesche, colle immani volte, coi cento strumenti di dolore e di spavento ha veramente un grande valore simbolico. L'uomo atterrito dai pericoli e dalle angustie della feroce punizione, volge invano lo sguardo alle interminabili scale che si perdono di là dalle volte verso la luce. Egli è l'anima serrata nel corpo e nella vita, sempre angosciata ed atterrita, che si rivolge con tutte le sue speranze verso una luce […] al di là della vita e della terra” (p. 18-19). Potremmo tornare così al candelabro frammentario di palazzo Salviati ricomposto come lume oltre la vita, ma possiamo anche verosimilmente immaginare che le carceri siano scaturite non solo da una visione urbanistica estesa alle realtà più dure e laceranti dei servizi sociali, quanto anche da una serie di visite ai cantieri di opere in costruzione, che tanto hanno in comune, nel loro aspetto, con le rovine: quel che non è più somiglia in effetti al divenire di quel che non è ancora. E poi le rovine nelle costruzioni sono il frutto di trascuratezza e abbandono, proprio così come le carceri sono necessarie e consequenziali ad altre insensate e rovinose azioni. La somiglianza di ambiente e l'ipotesi di parallelismo tra rovina e cantiere è calzante. “Egli si affaccia sul vero e lo studia amorosamente” (p. 18) non solo per il fatto di essere comunque il fabbricato lacero, scoperchiato, frammentario, puntellato. Basterebbe a suffragarlo in via indiziaria la fabbrica del carcere minorile correzionale femminile del San Michele, che all'epoca del primo arrivo a Roma del Piranesi era in costruzione ad opera di Ferdinando Fuga, verso porta Portese, proprio ai piedi e di fronte a Santa Maria del Priorato, sulla sponda opposta del fiume. Anche la suggestione delle scale ovunque e delle frequenti fonti di luce dall'alto pare evocare un cantiere, prima di giungere al tetto. Nelle carceri il Piranesi guarda non tanto al passato quanto al futuro, mentre esprime il destino di persone che pare vogliano affrettare la loro scomparsa. “Quegli uomini magri e disperati ch'egli ha disegnato fra le mura cadenti e presso le colonne che s'innalzano inutili verso la volta del cielo senza nulla reggere, pare quasi che vogliano anch'essi affrettare il momento di sparire col loro dolore” (p. 19). Il breve ritratto dell'Hermanin si conclude (p. 20) con una nota celebrativa che conferma comunque l'idea di unità del molteplice, nell'interesse per la pluralità, che geograficamente può essere ben reso da una dedizione e da una fedeltà non alternativa del Piranesi a Venezia e a Roma, quasi a oriente e occidente insieme. Secondo la logica dell'et et, di superamento dell'aut aut.
Se guardiamo poi al corredo delle tavole, sin dalla prima non può dirsi se una particolare attenzione sia stata riservata a quanto era allora andato - anche recentemente, da neanche due secoli - perduto, come il Settizodio. O, più di mille anni prima, come parimenti era accaduto per la vigna Falcone già Rustici-Corvini, poi Aquaroni, nel luogo dell'acquedotto Neroniano e della moles ruderum fatta sgombrare e rimuovere da papa Ilario e poi da Sisto III. Insomma le rovine fantastiche possono evocare non solo il mai esistito immaginabile, ma anche il non più esistente. La città perduta.
La sintesi proposta dall'Hermanin - non nel testo ma con le tavole - abbraccia il seguito familiare di Giambattista: la tavola 4 riproduce l'arco di Costantino ripreso da un fornice interno del Colosseo da Francesco Piranesi. Le persone che animano la scena comunque appaiono imponenti raramente: tra quelle pubblicate dall'Hermanin questo avviene solo nella tavola 49, e la ragione è presto detta: per via della scarsissima conservazione in elevazione delle rovine del ponte Trionfale o Vaticano. Non poteva essere altrimenti, a meno di tradire la realtà.
La tavola 6 dell'Hermanin mostra l'arco degli Argentari, uno dei pochi monumenti antichi di Roma realizzati interamente in stile ateniese, detto atticurgo o attico, dal nome della regione greca settentrionale che si aggiunge, nella denominazione degli stili di etò classica, ai tre fronti del Peloponneso: egeo o dorico, ionico e corinzio. Questo arco minore, che per le sue ridotte dimensioni è stato raffigurato perfino sovrapposto a sormontare come coronamento l'imponente giano che lo affianca, si trova ampliato nelle sue dimensioni, apparentemente falsando il rapporto proporzionale reale tra i due monumenti contermini, ma senza nessun tradimento del vero, semplicemente sfruttando le leggi della prospettiva. Si trova infatti in primo piano, ma sulla sinistra e non sulla destra, solo parzialmente occultato dall'angolo del portico di San Giorgio al Velabro, con una inquadratura rivolta verso il Tevere che non si scorge sullo sfondo perchè il quadro è lievemente inclinato dal basso verso l'alto (le verticali convergono appena superiormente). Questa posizione marginale a sinistra prova che la lastra, salvo che nelle scritte, è stata incisa direttamente, forse senza contatto ribaltato del disegno preparatorio di spolvero sulla cera, quindi senza tenere conto del rovesciamento di stampa. E dunque su carta produce una immagine speculare rispetto al vero. Mentre al centro, ma in secondo piano, si staglia il giano quadrifronte ancora integro, riconosciuto recentemente nella committenza da Adriano La Regina, col suo attico (qui nel senso di livello sommitale) ancora documentato, che verrà demolito in un presunto “restauro” solo pochi decenni più tardi. Una visione del monumento del tetrapilo quadrifronte costruito come arco di incrocio su due assi viari e in questo senso giano (porta, transito) bifronte (non vi è contraddizione geometrica tra due direzioni e quattro versi) tanto dettagliata dell'attico perduto la si ha forse simile solo nella incisione di A. Aquaroni. Sono insomma qui comprovate sia la produzione immediata e di getto, probabilmente senza banco ottico, ripresa direttamente dal vero o delineata addirittura a memoria sulla lastra incerata, sia la consapevolezza di urgenza: quella - fedele ai principi dell'archeologia - di ogni testimonianza di tempo e di luogo, sempre unica e irripetibile.
Col trascorrere dei secoli sempre più chiaramente si coglie nell'opera del Piranesi un ruolo di precursore, di anticipatore. Basta la sua chiave romantica. Basterebbe ulteriormente a mostrarlo nel dettaglio la sfera che si impone esplicitamente sul retro dell'altar maggiore di Santa Maria del Priorato, realizzata postuma su suo progetto e disegno, anticipando ben noti motivi cimiteriali successivi.
Nella colossale indagine grafica condotta su forma, contenuto e funzione dell'architettura, si può concludere - parafrasando e citando Ruggero Savinio - che Giambattista Piranesi abbia voluto garantire alle sue immagini vita autonoma, moltiplicazione e agile possibilità riproduttiva, superando perfino le architetture reali attraverso “una stabilità di durata al di fuori e al di sopra del tempo”.