Nel 1979, nella città di Cori, in collaborazione con la Calcografia Nazionale, si aprì una mostra a Palazzo Luciani dedicata ai quattro volumi di Piranesi sulle antichità di Albano, di Castel Gandolfo e di Cori. A questa si volle accostare una mostra nel chiostro di S. Oliva dedicata alla “Architettura disegnata” contemporanea.
Furono invitati ad esporre molti giovani architetti della scuola romana; per molti di loro non era certo un primo incontro con Piranesi. Negli anni’60 quei giovani lavoravano come disegnatori e facevano prospettive su carta lucida ad inchiostro di china perché il disegno potesse essere riprodotto cianograficamente: non un oggetto quindi, ma una matrice. Questo lavoro, che richiedeva la conoscenza della prospettiva e l’attenzione al segno grafico, aveva avvicinato quella generazione al mondo delle incisioni.
Negli anni ‘60, formati alla scuola strutturalista, rimanevamo incantati dai disegni in cui Piranesi si adopera a smontare il manufatto architettonico isolando gli elementi componenti, ordini, apparati decorativi, caratteristiche strutturali, e la “Machinerie” (i cunei, le olivelle, i paranchi, le funi) che illustrano il teatro del cantiere. Mettendo in scena lo spettacolo della costruzione, Piranesi sposta l’attenzione dall’oggetto al processo, dal contenuto alla lingua.
Nella seconda metà degli anni ‘60 Lo studio di Corso Vittorio (Lucia Latour, Paolo Martellotti, Pia Pascalino, Antonio Pedone, Franco Purini, Mario Seccia, Andrea Silipo, Duccio Staderini, Laura Thermes e molti altri che nel tempo si sono avvicinati a questo gruppo) impostò la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura con la progettazione di una città definita “compatta” o “compressa”. Un modello in antitesi allo Zoning razionalista, senza differenze di intensità spaziale, progettuale e simbolica fra centro e periferia. Sulla spinta dei primi disegni di Franco Purini, tutto il gruppo ha lavorato su questa idea originale per alcuni anni. Nella messa a punto di questo modello fu basilare lo studio dell’architettura romana e la lettura spaziale che ne dava Piranesi.
Quest’ultimo nelle architetture d’invenzione abbandona il vezzo dei vedutisti che tradizionalmente posizionavano l’occhio della loro vista prospettica più lontano di quanto permettesse la reale dimensione urbana; adotta al contrario punti di vista sempre più ravvicinati, abbinandoli spesso ad un restringimento del campo visivo. Piranesi rappresenta frammenti di città e quindi costruisce degli “interni”. Delle sue architetture si coglie la struttura formativa, gli elementi che ne determinano la genesi ma non la conclusione che li definisca in un ordine pacificatore.
Allontanandosi dallo spazio che il Rinascimento aveva tramandato, regalandoci una bugia, come spazio della classicità e della magnificenza romana, scopriva la vera chiave di una architettura che trovava nella compressione spaziale e simbolica di una città il suo linguaggio.
La architettura romana è infatti rappresentabile prospetticamente nei suoi singoli manufatti, ma il suo portato più sconvolgente è nella continuità e contiguità fra questi. Negli spazi in cui le intercapedini, i resti, il non misurabile, che sfugge alla rappresentazione prospettica, diventano il linguaggio della struttura della città . Una città compatta fatta non di oggetti architettonici e di simboli in uno spazio vuoto ma di vuoti faticosamente progettati in un continuum architettonico.
Lo studio Labirinto (formato nel 1970 da P. d’Ercole, G. Marinelli, P. Martellotti, P. Pascalino, A. Pernici ) fu chiamato da Carlo Bertelli nel 1973 a progettare il restauro di alcune parti del palazzo della Calcografia Nazionale a Roma in via della Stamperia e a disegnarne le sale del museo e delle mostre.
Il gruppo aveva fatto dello studio dei sistemi di rappresentazione uno dei punti focali della propria ricerca. Trovandosi nel tempio della riproduzione disegnò quegli interni come un monumento alla rappresentazione secondo la struttura della deformazione prospettica per il museo e della deformazione assonometrica per lo spazio mostre. Quei ricchissimi anni si conclusero con una mostra su Piranesi nel 1976 e il grande contributo di Carlo Bertelli agli studi piranesiani nel numero II:2 di “GRAFICA grafica”.
Per noi del gruppo Labirinto lo studio di Piranesi fu essenziale per indagare la relazione fra lo spazio del disegno e quello dell’opera, fra sistemi di rappresentazione e notazioni spaziali, fra struttura simbolica del disegno e caratteristiche dell’opera.
Nelle incisioni della sua prima raccolta Prima Parte di Architetture e Prospettive l’immagine non si struttura mai a partire da un piano di riferimento ma si dipana su scalinate, basamenti, piazze a diverse altezze, frequentate da figure che anche nei primi piani non si trovano mai ad abitare lo stesso spazio che è vissuto dall’osservatore. A volte l’imponente e variato sfoggio di scalinate, che straripa nei primi piani, continua nel fondale in un grandioso riprodursi di scale monumentali a proiettare il disegno nella dimensione di una babelica sfida alla conquista del cielo. A volte la rappresentazione di un ritrovamento archeologico, più che la meraviglia dei reperti artistici, sembra esaltare la pericolosità della discesa come sfida della conoscenza del mondo sotterraneo.
Questi valori simbolici in Piranesi tendono a prendere la qualità definitoria di archetipi. Nel rame che Piranesi introduce con la descrizione Gruppo di scale monumentali campate si susseguono in leggera salita verso uno spazio di fondo che l’artista chiama “la Rotonda”.
I pilastri che si dividono in quattro colonne binate d’angolo, permettono di vedere attraverso gli intercolumni superando l’occultamento dei fondali implicito nel taglio prospettico scelto. Ogni campata si raccorda con quelle limitrofe solo attraverso scalinate la cui altezza varia in progressione decrescente via via che si procede verso la Rotonda: sei gradini, poi cinque, poi quattro, così che la base della composizione non è un piano inclinato ma una superficie curva. Gli spazi rappresentati non si concludono in altezza ma si dilatano in una irrituale tipologia spaziale. Con un gesto potente, cancella ogni riferimento canonico ad una tipologia o ad un ordine classico inserendo una campata che invade in diagonale lo spazio della Rotonda. Nei fondali si aprono nuove ambientazioni e nuovi ordini. Piranesi innesca un processo labirintico alla ricerca di una architettura il cui valore simbolico è determinato da elementi non numerabili.
Ma Piranesi nelle Carceri si spinge anche oltre: scardina il rapporto lineare fra spazio e tempo. Progetta uno spazio fatto di strutture voltate che si susseguono in un ritmo incalzante sia orizzontalmente che verticalmente. Dell’ordine architettonico rimane qualche incerta memoria, come si addice ad uno spazio posto sotto la quota che divide il mondo irrazionale sotterraneo dalle architetture costruite alla luce solare. Piranesi pone l’orizzonte sempre molto basso, a volte fuori dallo spazio del disegno e questa scelta imprigiona chi guarda, così che la salita verso la libertà dello spazio esterno appaia come un irrealizzabile sogno.
Piranesi non rappresenta una architettura dalla struttura complessa ma una città sotterranea progettata da giganti del passato, trasformata da un uso proprio o improprio nel tempo. Monumentali strutture lapidee convivono con una serie di strutture sopraggiunte nel tempo: grandi ponti lignei e metallici sorretti o movimentati da robuste funi, grandi capriate, scale elicoidali, che spesso competono per dimensione con la struttura muraria, trovano il loro posto nella architettura con prepotenza, attentando alla solidità del manufatto originale.
Sembra la metafora ante litteram di una città contemporanea. Guardando le modifiche apportate nella seconda edizione delle Carceri si ha l’impressione che l’artista, abbia voluto testimoniare la inarrestabilità di questa violenta opera di trasformazione.
Il cammino dell’illusione trova il suo linguaggio più trasgressivo nelle innumerevoli variazioni dimensionali di quanto abita questa architettura: le figure umane, gli strumenti di tortura spesso giganteschi e l’immancabile presenza di imponenti resti marmorei posti ad arte per ampliare o rimpiccolire gli spazi che li contengono.
Piranesi, spostandosi nello spazio delle sue lastre, opera continui scarti dimensionali: Zoom che avvicinano o allontanano gli spazi delle singole campate, sequenze cinematografiche fra ellissi e flash back. Che sia l’atteggiamento onirico proprio di una scrittura automatica o piuttosto il frutto di lucida consapevolezza, l’osservatore comunque perde il suo centro e rimane inchiodato nella inquietante e dolorosa immersione nei dettagli. Il dramma delle Prigioni è il simbolo della apocalittica distruzione della costruzione rinascimentale. Le destrutturazioni della architettura manierista e il razionale illusionismo visionario della luna ariostesca, hanno trovato il loro “break point”.
La storia è un precario processo di trasformazione; la rappresentazione ha distrutto la oggettività scientifica dello spazio euclideo; la ragione è dovuta venire a patti con la follia e inizia un viaggio nell’inconscio.
L’occhio con cui si guarda la realtà è la chiave del proprio spazio creativo, e Piranesi svela i legami simbolici inerenti ai sistemi di rappresentazione, definisce le premesse linguistiche degli scarti dimensionali e delle deformazioni, crea la grammatica del gioco fra spazio reale e spazio della immaginazione, fra realtà e finzione. A ben vedere nessuna altra opera del passato sembrava tanto vicina a quella ansia creativa che caratterizzava i giovani architetti degli anni ‘70, nella loro opera di destrutturazione della lingua, che tanto seguito avrebbe poi avuto nelle realizzazioni architettoniche negli ultimi anni del novecento e nel nuovo millennio.
Per quei giovani architetti Piranesi apparteneva a quella piccola schiera di eroi che sono scesi agli inferi e sono tornati vivi, convinto, come ci spiega un poeta, che Euridice sarebbe comunque sparita anche se Orfeo non si fosse voltato a guardarla.