"Le nostre Arti secondo Cicerone, si dicono liberali, perché degne dell’uomo libero. Chi si lascia opprimere, cessa di esserlo; e la libertà quanto sia pregiabile, ve lo rammemora il vicin luogo di que’ famosi Rostri, dai quali la generosità degli antichi Romani ne raccomandava, e ne inculcava quotidianamente al Popolo l’amore, e lo zelo."
Allocuzione del Signor Giambatista Piranesi agli Eccellentissimi Sig.ri. Socj dell’Inclita Accademia del Disegno di S. Luca, in occasione del deposito da esso fattovi del presente corpo della sua opera delle Antichità Romane.
Dal manoscritto originale nella Biblioteca Nazionale Braidense, Milano, riprodotto in S. Gavuzzo-Stewart, Giovanni Battista Piranesi’s Allocuzione to the Academicians of S. Luca in Rome, in ‘Italogramma’, vol. XVII (2019).
Queste parole, tratte dall’ Allocuzione che Piranesi avrebbe voluto indirizzare ai membri della Accademia di San Luca a Roma nel 1757 circa, racchiudono il significato che l’Architetto Veneziano dava al concetto di libertà: questa è non solo civica, ma anche libertà d’espressione e d’azione, e nello scegliere una giustificazione per tale definizione, rivolgendosi all’antico, Piranesi dà esempio di una correlazione costante con il presente. L’esempio antico informa la sua libertà creativa generando una perenne tensione vibrante nelle sue opere. In queste brevi parole Piranesi inoltre contrappone il concetto della libertà a quello dell’oppressione. Già nel decennio precedente Piranesi aveva pubblicato la prima edizione delle sue imponenti Invenzioni Capric di Carceri (ca. 1750) in cui sceglie come tema il luogo di pena che comunque disegna con vertiginosa libertà descrittiva; a distanza di circa dieci anni lavorava alla seconda e finale stesura di questo magistrale componimento: le Carceri d’Invenzione. Il tema – ormai incentrato sulla qualità opprimente e penale delle carceri – anziché scenografica – non è casuale: negli anni di mezzo del secolo si andavano riconsiderando le strutture giudiziarie ereditate dai secoli precedenti, contraddistinte dall’ epoca delle inquisizioni, e si discutevano le procedure penali: tra i maggiori pensatori e riformatori dell’illuminismo contribuivano al dibattito, primi tra tutti Cesare Beccaria col suo Dei delitti e delle pene del 1764 posteriore di pochi anni alle Carceri di Piranesi, e Jean-Jacques Rousseau col suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini del 1754, e l’importantissimo Contratto sociale del 1762; da giovane professionista quest’ultimo, è degno di nota, passò un anno tra il 1743 e il 1744 lavorando come segretario dell’Ambasciatore Francese a Venezia – proprio nello stesso periodo in cui Piranesi fece il suo primo rientro in patria da Roma.
Piranesi pubblicò il suo più importante trattato archeologico, Le Antichità Romane, in quattro volumi, nel 1756: questo gli valse la nomina alla Società degli Antiquari di Londra. La pubblicazione era dedicata al nobile britannico, Milord Charlemont, il quale all’ultimo comunque ritirò il suo sostegno, dopo che Piranesi aveva stampato e messo in circolazione i primi esemplari del suo grande lavoro. Tale gesto di disimpegno, messo in atto dagli agenti del nobile britannico a Roma, suscitò grande scandalo a spese di Piranesi, il quale fu costretto a difendersi, in fine pubblicando lo scambio epistolare riguardante l’affaire nelle Lettere di Giustificazione scritte a Milord Charlemont (datate 1757 ma in realtà messe in circolazione in febbraio 1758) nelle quali eccezionalmente dà ragione dell’impiego della damnatio memoriae da lui adoperata nei confronti del mecenate errante. Inoltre, nelle Lettere, Piranesi articola una nozione pressoché impensabile nel primo settecento, prendendo esempio dagli antichi, e da Rousseau, egli si afferma come pari sociale del nobile suo mecenate mancato:
“Un gran Signore è per il tempo presente l’ultimo del suo nome; un Professore n’ è il primo; e l’uno e l’altro debbono avere la medesima delicatezza” .
Il libello accese tale scalpore polemico che, chiamato in causa, il Governatore di Roma monsignor Caprara ordinò l’arresto di Piranesi, ma, grazie alla protezione dei cardinali Corsini, Orsini e Alessandro Albani, la minaccia della pena fu tramutata nell’obbligo di pubblicare una lettera ufficiale di scuse – tale scritto è datato 15 marzo 1758 – le circostanze degli eventi vennero riassunti a disfavore di Piranesi nella corrispondenza inviata da Peter Grant, uno degli agenti di Charlemont a Roma, il 1° Aprile 1758:
“There were fifty sketches made of the said recantation wrote and sent to the governor, none of which he judged to be satisfactory. At last, one was sent him with notice given him, that if he was not pleased with that, he was to expect nothing further. The governor therefore, finding himself overpowered in the affair, accepted of what was thus sent him, and obliged the fellow [Piranesi] to sign it and print it, and here your lordship has a copy of it. When the thing was brought to the push, the scoundrel struggled hard before he would sign it. He absconded for five days, and had threatened to throw himself in the river rather than make honorable mention of those he had abused, but at last was compelled to yield” .
Questo breve rendiconto della conclusione dell’affaire Charlemont ricorda puntualmente come la società Romana ai tempi di Piranesi era intensamente stratificata con le gerarchie ecclesiastiche e nobili al comando. In tale sistema, solo grazie alla protezione dei cardinali che gli davano appoggio, Piranesi era stato in grado di difendersi dalle accuse del nobile britannico e dei suoi agenti a Roma. In questo contesto si rinnovano di valore combattivo le parole dell’Allocuzione di Piranesi, formulate nei primi mesi del 1757 circa, mentre maturava lo scontro con Charlemont, e durante il periodo in cui per prima Piranesi rese noto al pubblico la mancanza del mecenate, così dando motivo che venisse chiamato in causa il Governatore di Roma il 13 giugno 1757. In seguito la furia di Piranesi sarebbe diventata tale da portarlo alla produzione di immagini satiriche a corredo della corrispondenza relativa all’affaire nelle Lettere di Giustificazione scritte a Milord Charlemont in aperta contravvenzione della “injunxi” del Tribunale di Roma. Nonostante il tema, queste Lettere hanno un apporto filosofico relativo alla libertà di azione, e di espressione, di notevole spessore.
Fin dalla sua prima pubblicazione scritta, la lettera di dedica a Nicola Giobbe della Prima Parte di Architetture e Prospettive (1743), Piranesi dimostra la sua ispirazione dall’antico, la sua volontà di disegnare liberamente, e la sua posizione di contrasto rispetto ai mecenati dell’epoca:
“…vi dirò solamente, che di tali immagini mi hanno riempiuto lo spirito queste parlanti ruine, che di simili non arrivai a potermene mai formare sopra i disegni, benchè accuratissimi, che di queste stesse ha fatto l’immortale Palladio, e che io pur sempre mi teneva innanzi agli occhi. Quindi è ch’essendomi venuto in pensiero di farne palesi al Mondo alcune di queste: ned essendo sperabile a un Architetto di questi tempi, di poterne effettivamente eseguire alcuna: sia poi ella colpa, o dell’Architettura medesima caduta da quella beata perfezione a cui fu portata ne’ tempi della maggiore grandezza della Romana Repubblica, e in quelli de’ potentissimi Cesari, che le succedettero: o pure ella sia colpa ancora di quelli che farsi dovrebbono Mecenati di questa nobilissima facoltà: il vero si è, che non vedendosi a nostri giorni Edifizj, che portino il dispendio, che ricercherebbe per esempio un Foro di Nerva, un Anfiteatro di Vespasiano, un Palazzo di Nerone; ned apparendo ne’ Principi, o ne’ privati disposizione a farneli vedere; altro partito non veggo restare a me, e a qualsivoglia altro Architetto moderno, che spiegare con disegni le proprie idee, e sottrarre in questo modo alla Scultura, e alla Pittura l’avvantaggio, che come dicea il grande Juvara, hanno in questa parte sopra l’Architettura; e per sottrarla altresì dall’arbitrio di coloro, che i tesori posseggono, e che si fanno a credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della medesima” .
A distanza di oltre vent’anni il nesso tra libertà d’espressione, libertà di disegno e ispirazione dall’ antico era ancora più che mai vivo nella poetica di Piranesi. Durante quest’arco di anni la così detta controversia Greco-Romana si era diffusa: in un campo c’era chi parteggiava per la posizione rigorista, soprattutto sostenuta dai Francesi, di una “belle & noble simplicité” come la chiamava Mariette, e nell’altro c’era Piranesi che difendeva il gusto inventivo della tradizione Romana. Scrivendo nel Parere sull’architettura del 1765, Didascalo, che in questo dialogo prende la parte di Piranesi, osserva con prescienza:
“…Gli Architetti per l’ordinario si chiamano, quando uno intende di far qualche bella fabbrica: ecco quello in che oggi possiam ben dir che consista l’Architettura. Ma quando uno non si cura d’altro, i padroni son eglino gli Architetti, e basta loro d’ avere chi tiri su le mura. Tutto il restante dell’Architettura, oltre l’ornato, è di sì tenue ritratto, e di tanto poca gloria per gli Architetti, che pochi ve n’ ha che vi si fondino” .
Di qualche anno successivo è l’ultimo importante commento di Piranesi sull’assoluta necessità del diritto degli architetti di operare in totale libertà. Scrivendo nel Ragionamento apologetico in difesa dell’Architettura Egizia e Toscana che serve da introduzione all’ influente volume dei disegni incisi delle Diverse maniere d’adornare i cammini ed ogni altra parte degli edifizi… del 1769, Piranesi si scaglia contro la posizione rigorista con forza, per dare ragione a ciò che egli considera buona pratica nell’architettura. Qui sentiamo l’eco dei sentimenti per la prima volta formulati nella dedica della Prima Parte, ma ora ripresi con precisione pungente nell’ affermazione della libertà operativa degli architetti: non è un caso che le Diverse maniere ebbe una influente e duratura fortuna sull’ esercizio delle arti in tutto il mondo occidentale:
“Dovrà dunque il talento de’ nostri artefici farsi così vilmente schiavo alle Greche maniere, che nulla prender possa dell’altrui bello, ove quello Greco non sia, o di nascita, o almen di origine? Eh scuotiamo una volta si indegno servaggio, e sé gli Egizj, sé gli Etruschi, ne’ loro monumenti ci presentano vaghezza, leggiadria, eleganza, delle loro ricchezze facciamo pur uso. Non già copiando servilmente l’altrui, che ciò ad un mero mechanismo ridurrebbe l’architettura, e le nobili arti; e biasimo anziché lode riporterebbe dal publico amante di nuove cose; e a cui per formare idea, e concetto del merito d’un artefice non basta, come taluno forsè pensò negli anni addietro, un disegno di buon gusto, qualora quello altro non sia, che una copia di vecchio antico lavoro. Nò, un artefice, che vuol farsi credito, e nome, non dee contentarsi di essere un fedele copista degli antichi, ma su le costoro opere studiando mostrar dee altresì un genio inventore, e quasi dissi creatore; e il Greco, e l’Etrusco, e l’Egiziano con saviezza combinando insieme, aprir si dee l’adito al ritrovamento di nuovi ornamenti, e di nuovi modi. Non è l’umano ingegno sì corto, e limitato, che dar non possa all’opere di architettura nuovi abbellimenti, e nuovi garbi, qualora si voglia ad uno studio attento, e profondo della natura accoppiare quello altresì degli antichi monumenti” .